NewsIngiuria e diffamazione: il valore della reputazione

28 Maggio 2025

 

La diffamazione è un delitto previsto e punito, a querela della persona offesa, dall’art. 595 c.p., il quale al primo comma prevede che:

“Chiunque, fuori dei casi indicati nell’articolo precedente, comunicando con più persone, offende l’altrui reputazione, è punito con la reclusione fino a un anno o con la multa fino a milletrentadue euro.”

 

IL BENE GIURIDICO TUTELATO: LA REPUTAZIONE

 

Il legislatore del 1930 colloca la suddetta fattispecie nel XII titolo del II libro del codice penale, dedicato ai delitti contro la persona. In particolare lo rinveniamo nel capo II nel quale vengono ricompresi i delitti contro l’onore.

Secondo l’opinione più diffusa, il bene giuridico che la norma mira a tutelare è la reputazione, intesa quale profilo esteriore dell’onore.

In via generale l’onore può essere definito come il sentimento che designa la somma dei valori morali che un individuo attribuisce a se stesso, nonché sotto il profilo esteriore (reputazione) il sentimento di effettiva stima che la comunità ha di un dato soggetto.

Trattasi questo, di un bene intimamente connesso con la natura sociale dell’uomo, il quale realizza e completa la sua persona anche per mezzo dell’opinione che la comunità in cui vive ha di lui. Da qui dunque, l’esigenza di tutela penale.

 

LA CONDOTTA TIPICA

 

Per quanto concerne l’elemento oggettivo del reato, il delitto di diffamazione, ai fini della sua integrazione, necessita di tre requisisti fondamentali:

  1. L’assenza della persona offesa. Affinché ci si possa dire in presenza di una diffamazione, infatti, l’offesa alla reputazione deve avvenire in assenza del soggetto passivo del reato. Tale elemento si ricava ponendo in relazione la diffamazione con l’ingiuria. Quest’ultima consisteva in un reato previsto dall’art. 594 c.p. poi abrogato nel 2016, il quale puniva l’offesa all’onore o al decoro di una persona presente. Il successivo 595 c.p., in apertura, prevede quindi una clausola di sussidiarietà (“fuori dai casi indicati nell’articolo precedente”) che consente di rinvenire la differenza tra ingiuria e diffamazione proprio nella presenza o meno dell’offeso al momento della lesione della reputazione.

 

  1. Offesa alla reputazione di una persona. Secondo l’orientamento prevalente, che identifica la diffamazione come reato di pericolo, ai fini della sussistenza del reato è sufficiente la mera possibilità o probabilità che gli atti diretti a ledere l’onore provochino una lesione.

 

 

  1. Comunicazione con più persone. Essenziale per la configurazione del delitto è che l’offesa all’altrui reputazione avvenga comunicando con almeno due persone, senza contare il soggetto passivo e gli eventuali concorrenti nel reato. In realtà secondo la giurisprudenza di legittimità, il delitto può essere integrato anche a seguito di comunicazione con una sola persona, quando però l’agente si rappresenti e voglia che l’offesa sia comunicata almeno ad un’altra persona che ne venga successivamente a conoscenza.

 

 

LA DIFFAMAZIONE ONLINE

 

Lo sviluppo di nuove forme di comunicazione per mezzo della rete internet e degli strumenti telematici, che consentono a dati e informazioni di circolare e diffondersi tanto velocemente quanto mai prima e di raggiungere un numero sempre più ampio di persone, ha posto il  problema della pervasività e lesività delle condotte diffamatorie telematiche.

Gli strumenti tecnologici più diffusi attraverso i quali possono essere perpetrate offese all’altrui reputazione sono le e-mail, le app di messaggistica istantanea (es. Whatsapp, Telegram ecc…) e i social network (es. Facebook, LinkedIn, Instagram ecc…).

Secondo la Cassazione è configurabile il delitto di diffamazione nel caso di un invio di una e-mail dal contenuto offensivo oltre che all’offeso ad altre due persone (Cass. Pen., Sez. V, 4 marzo 2021, n. 13252).

Allo stesso modo anche in relazione ad una chat di gruppo Whatsapp in cui è presente anche l’offeso, i giudici di legittimità hanno affermato che, se quest’ultimo non abbia preso immediatamente visione del messaggio si configura il delitto di diffamazione (Cass. Pen., Sez. V, 10 giugno 2022, n. 28675).

Infine anche la condotta di pubblicazione di un messaggio offensivo sulla propria bacheca Facebook integra il delitto in questione, ed anzi secondo la giurisprudenza tale specifica modalità di diffamazione online configura la fattispecie aggravata prevista dal II comma dell’art. 595 c.p.. Si ritiene infatti di ricomprendere il social network Facebook nell’espressione “qualsiasi altro mezzo di pubblicità” proprio perché la diffamazione a mezzo social network rende l’offesa accessibile ad una moltitudine indeterminata di soggetti, di talché la condotta si connota di un maggiore disvalore penale.

 

 

IL DIRITTO DI CRITICA E DI CRONACA

 

L’esigenza di tutela dell’altrui onore o reputazione deve essere bilanciato con il principio di libertà di manifestazione del pensiero previsto dall’art. 21 Cost.. In alcuni casi quindi la condotta che integrerebbe il delitto di diffamazione viene scriminata attraverso l’applicazione della causa di giustificazione dell’esercizio di un diritto ex art. 51 c.p.. Due diritti in particolare sono soliti intervenire in materia di diffamazione: il diritto di critica e quello di cronaca.

Il diritto di critica può essere inteso come la libertà di dissentire e confutare anche aspramente le tesi, affermazioni o condotte altrui, a patto che l’argomento abbia una qualche rilevanza sociale e le espressioni adoperate possano definirsi corrette (pertinenti e continenti). Si fuoriesce dal perimetro del lecito ogni qualvolta la critica trascenda in attacchi personali, senza alcuna finalità di interesse pubblico e con l’unico obbiettivo di aggredire la sfera morale altrui.

Il diritto di cronaca, invece, consiste nel diritto di informare la collettività su notizie di pubblico interesse. Tale diritto incontra tre limiti fondamentali, travalicati i quali si rischia l’incriminazione per diffamazione:

  1. Il principio di verità. In virtù di questo principio si richiede che un fatto per essere meritevole di divulgazione debba essere vero, non sussistendo alcun interesse pubblico alla conoscenza di un fatto falso. Il giornalista quindi deve sottoporre ad un adeguato vaglio di attendibilità le sue fonti prima dei pubblicare una data notizia.

 

  1. Il principio di pertinenza. Secondo questo principio i fatti resi noti devono essere di interesse per l’opinione pubblica. Sussiste un interesse pubblico quando un dato fatto se narrato è suscettibile di orientare scelte individuali e di partecipazione ad attività costituzionalmente tutelate. Nel caso di notizie attinenti alla vita privata di un soggetto, queste possono definirsi di interesse pubblico in ragione della particolare notorietà del personaggio o della rilevanza delle funzioni.

 

  1. Il principio della continenza. Con ciò si richiede che l’esposizione dei fatti narrati avvenga in modo corretto e privo di espressioni inutilmente offensive.

 

 

LA DIFFAMAZIONE AGGRAVATA

 

L’art. 595 c.p. prevede al II, al III e al IV comma 3 ipotesi di diffamazione aggravata:

“Se l’offesa consiste nell’attribuzione di un fatto determinato, la pena è della reclusione fino a due anni, ovvero della multa fino a duemilasessantacinque euro.

Se l’offesa è recata col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, ovvero iatto pubblico, la pena è della reclusione da sei mesi a tre anni o della multa non inferiore a cinquecentosedici euro.

Se l’offesa è recata a un Corpo politico, amministrativo o giudiziario, o ad una sua rappresentanza, o ad una Autorità costituita in collegio, le pene sono aumentate.”

In relazione all’offesa consistente nell’attribuzione di un fatto determinato occorre soffermarsi sull’art. 596 c.p., rubricato “esclusione della prova liberatoria”. Secondo detta norma infatti, l’imputato per diffamazione non potrà difendersi eccependo la verità del fatto attribuito alla persona offesa.

Vi sono però dei casi, con particolare riferimento all’ipotesi dell’offesa consistente nell’attribuzione di un fatto determinato, in cui è ammessa la prova liberatoria.

I casi suddetti sono previsti dall’art. 596 co. II e seguenti c.p..

  1. La persona offesa e l’offensore, di comune accordo e prima della definizione del giudizio, possono deferire ad un giurì d’onore il giudizio sulla verità del fatto oggetto dell’offesa.
  2. Anche senza comune accordo la prova della verità del fatto è sempre ammessa nel procedimento penale:
  • se la persona offesa è un pubblico ufficiale ed il fatto ad esso attribuito si riferisce all’esercizio delle sue funzioni;
  • se per il fatto attribuito alla persona offesa è tuttora aperto o si inizia contro di essa un procedimento penale;
  • se il querelante domanda formalmente che il giudizio si estenda ad accertare la verità o la falsità del fatto ad esso attribuito.

Se la verità del fatto è provata l’imputato non è punibile, salvo che non sia applicabile l’art. 595, co. I, c.p..

 

 

L’ESIMENTE DELLA PROVOCAZIONE

 

L’art. 599 c.p. prevede una causa di esclusione della colpevolezza per cui un soggetto non viene punito se ha commesso un fatto integrate gli estremi del delitto di diffamazione nello stato d’ira determinato da un fatto ingiusto altrui, e subito dopo di esso.

Per fatto ingiusto la giurisprudenza ritine che debba intendersi “un comportamento, il quale non può, neppure astrattamente, trovare giustificazione in alcuna disposizione normativa, ovvero nelle regole comunemente accettate della civile convivenza” (Cass. Pen., Sez. V, 8 febbraio 2021, n. 4943).

Per stato d’ira invece si intende, non un mero stato emozionale implicante agitazione, timore o paura, bensì una condizione psichica tale da impedire al soggetto che la prova, l’attivazione dei propri freni inibitori.

Infine, affinché possa esplicare effetti la suddetta esimente, è necessario che l’offesa venga arrecata subito dopo quella ricevuta, ossia che si possa provare una nesso temporale ristretto tra i due fatti, tale da consentire di ritenere non ancora scemato lo stato d’ira.

Avvocato Andrea Busà - P.iva 14222851009